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#5: Quali sono le dimensioni giuste dell’abitare?

“Ho visto un futuro senza macchine ed è incredibile” titola un recente articolo sul NYT:[1] una Manhattan in cui lo spazio dedicato ad auto, parcheggi e affini – qualcosa come quattro volte la superficie di Central Park – è restituito ai cittadini in forme pedonali, ciclabili, verdi. Ridare spazio all’umano, ripensare la mobilità e i servizi alla scala del corpo, aggredire le frammentazioni e le distanze metropolitane con nuove forme comunitarie sono idee che precedono l’avvento del Covid-19, ma che la pandemia ha riportato alla ribalta con urgenza febbrile. Tornano al centro visioni urbane come la “città di 15 minuti” di Anne Hidalgo sindaca di Parigi (sulla tradizione delle Neighborhood Unit per Chicago), i superblocchi (superillas) di Barcellona, programmi di coesione sociale come Every One Every Day nell’East London e così via. Dopo le parole spese in favore di un ritorno ai borghi rurali, e mentre assistiamo a emigrazioni al contrario – o southliving – grazie alla “scoperta” dello smart working (elogio della dispersione?), l’obiettivo è invece una nuova gestione della densità senza affollamento (Richard Sennett). Tema cruciale: con quale logica pensarlo e a quale scala agire? Quali sono le dimensioni giuste dell’abitare futuro?